Qualcuno disse una volta: “Prima di discutere con qualcuno, chiediti: questa persona è abbastanza matura da capire che può esistere un altro punto di vista?” Se la risposta è no, allora non ne vale la pena. Perché di fronte all’aridità del confronto, la scelta più saggia è talvolta il silenzio. Ma nella storia del pensiero umano, il dialogo ha sempre rappresentato una delle forme più nobili di relazione. Dai tempi antichi l’incontro tra voci diverse è stato visto come terreno fertile per la crescita, la scoperta, l’evoluzione. Eppure, c’è un punto critico che raramente viene affrontato con onestà: non tutte le persone sono pronte per il dialogo. Dialogare non significa semplicemente alternarsi nella parola, scrivere o ribattere. Significa – come scriveva il compianto sociologo Domenico De Masi – “ascoltare con l’intento di capire”. Ma quanti oggi a Guardia ascoltano davvero per comprendere? Molte persone, e non solo nella vita privata ma anche e soprattutto in ruoli pubblici, si muovono nel dialogo come in una gabbia comunicativa. È il caso, ad esempio, di un amministratore del comune di Guardia, Silvio Falato, la cui stringatissima modalità di replica – altro che confronto –, in quanto oggetto di un commento critico da parte di scrive, si riduce in due parole a una riaffermazione egocentrica delle proprie certezze.
Ecco uno dei nodi centrali in questo paese. Le persone che oggi (come ieri) amministrano Guardia sono talmente identificate con le proprie idee e soprattutto con i propri errori e inefficienze da non poterle mettere in discussione senza vivere un crollo interiore. Per loro, discutere, replicare alle sacrosante accuse, cambiare idea equivale a perdere sé stessi. È una forma di autodifesa psicologica – a volte inconscia – che trasforma ogni scambio di idee in una trincea. Una richiesta di dialogo, di confronto, in questi casi, non è più strumento di costruzione, ma di logoramento.
Ecco allora che chi si avvicina con autentica volontà di confronto, spesso ne esce esausto, frustrato, svuotato. Perché cercare di dialogare con chi non è disponibile al dialogo diventa una forma di violenza contro sé stessi. Si scrive, ma non si viene letti davvero. Non si replica e se raramente succede, si replica ma non si risponde o si risponde a qualcosa che non è stato compreso. Non è una questione di colpa o di mancanza di intelligenza: è una questione di livelli di coscienza. Alcune menti a Guardia non sono mai state pronte al dubbio fertile. E insistere, nella speranza di “farsi capire”, rischia di trasformarsi in una battaglia vana e logorante. Non ogni campo è adatto alla semina, e non ogni interlocutore è disposto a ricevere. Ci vuole forza per insistere, certo. Ma ci vuole ancora più forza per abbandonare, per rinunciare al bisogno di spiegare, convincere, “salvare”.
E allora che si comprende una verità profonda: la pace interiore non nasce dall’approvazione degli altri, ma dalla libertà di scegliere dove mettere le proprie energie. E, forse, la battaglia più grande di tutte è proprio questa: mettere le proprie energie per “salvare” il proprio paese, non di essere compreso a tutti i costi.