Spero di sbagliarmi, ma credo che di qui a qualche mese, quando ci recheremo alle urne, non sarà facile scrostare la “scorza” che da decenni avvolge il mio paese d’origine come tanti sperano. Una “scorza”, una corazza vera (una realtà fin troppo tangibile in molti luoghi del Mezzogiorno), dura da scalfire proprio perché è fatta solo di interessi politici, di legami familiari, complicità economiche e spesso anche di rassegnazione collettiva. Un sistema che si autorigenera, che non ha bisogno di rinnovarsi perché si nutre della stanchezza e del silenzio della gente. Un potere cristallizzato nelle mani di pochi (una decina di famiglie) che si tramanda come una specie di “diritto ereditario”. Marca il territorio, fa pressione, controlla la vita socio economica della comunità, insomma è un potere radicato. Non dirò mafioso, ma radicato.
La “scorza” è una grande famiglia. Si capisce da un numero, sbalorditivo. Quello dei posti di lavoro, degli appalti, degli incarichi, distribuiti con sempre maggiore perseveranza e generosità. Ha un apparato, una rete di interessi, è difficile da espugnare. E chi vorrebbe cambiare le cose spesso si ritrova isolato, senza gli strumenti o il coraggio per farlo. Qualcuno dice che già riconoscere la scorza è il primo passo per pensare che, forse, si può iniziare a grattarla via, anche solo un pezzettino per volta. I più scettici, invece, che possiamo risparmiarci di votare, tutto rimarrà come prima. Sarà solo un voto confermativo. Perché la gente si abitua, si adatta, oppure ha paura, e la paura fa stabilità.
È questo il lato assurdo di tutta la vicenda: la gente che vuole proprio la “scorza” al potere e la “scorza” ha bisogno di continuità, di status quo. E dunque, alle prossime elezioni chi vincerà? Quelli che già c’erano. Chi perderà? Sicuramente questo paese, reso irrilevante, marginale. A tirare le somme, diremmo un voto inutile. Si, inutile, che non ci consegnerà nulla di più per questo paese. Ma inutile anche nel senso di insignificante. Perché non dirà nulla sul suo futuro, non darà indicazioni, scatterà una fotografia dello stato presente. Inutile sarà anche la campagna elettorale, inutili gli slogan e le sparate dei candidati; inutili molti candidati vincenti e perdenti. È tutto inutile, perché il furbacchiotto farà il furbetto, o perlomeno si butterà sotto l’ala protettrice dei furbi. Un voto statico più che stabile. Certo, cambieranno le facce, forse, ma non cambia il sistema.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, è diventata da queste parti quasi un emblema della strategia conservatrice camuffata da riformismo. Tomasi di Lampedusa, evidentemente, conosceva bene anche la nostra storia e le nostre talentuose inclinazioni che non ci hanno mai portato bene. Il trasformismo sistemico che si maschera da cambiamento, mentre in realtà perpetua sé stesso. Una “forma più evidentemente mafiosa” che negli ultimi decenni ha assunto sfumature sempre più sottili e pervasive: che non ha i contorni giuridici della mafia come la intendiamo noi, ma quella dei sorrisi, dei legami invisibili, delle cooptazioni, delle intimidazioni silenziose e controllo sociale che ha tutto il sapore del malaffare. Dove il consenso si costruisce non sul merito, ma sulla famiglia, sulla convenienza, sull’appartenenza e sulla paura di restare fuori dal cerchio magico. Dove chi, in tutti questi anni, non ha mai avuto il coraggio di innovare e di osare fino in fondo e di uscire dalla parrocchietta del “sistema” in cui era cresciuto e dal piccolo affarismo politico del suo habitat ambientale; piccoli capetti, gestori del nulla, ossessionati dalla prossima tornata elettorale e incapaci di visione, capaci solo di far politica in quel modo indecoroso e dispettoso, campando di malizie, agguati e perfidie; incapaci di occuparsi di interessi diversi da quelli contingenti del proprio cortile.
Che fare, allora?
Continua…