Come se la passa la cultura a Guardia Sanframondi al tempo dell’amministrazione del cambiamento? Per dare una prima, sintetica risposta: più o meno come prima, come sempre. E questo delude i più motivati ma rassicura chi temeva invasioni di campo. Se lo stato generale della cultura guardiese è questo il merito o la colpa non è solo dell’amministrazione in carica. Da sempre la politica in questo paese ha smesso di essere un motore di cambiamento culturale, rimanendo sempre più distante e disinteressata alle idee, con una progressiva disaffezione nei confronti della cultura come ambito di intervento.

L’atteggiamento di neutralità della politica nei confronti della cultura, un aspetto che purtroppo si è consolidato negli ultimi decenni, pare essere una costante, e ciò potrebbe essere visto come una forma di rassegnazione o di disinteresse per il ruolo che la cultura dovrebbe avere nella società guardiese. La cultura è irrilevante nell’azione dell’amministrazione del cambiamento; il suo atteggiamento rispetto alla cultura è di sostanziale neutralità. Fa soltanto piccoli interventi: poco influenti, assai soft e sempre più spesso neanche autorevoli. Si lavora con quel che c’è, è il mantra, perché a Guardia manca uno scouting culturale fondato sulla selezione qualitativa, le eccellenze e le competenze, la capacità di scovare e scegliere i più adatti. Manca un piano, un progetto e dunque una strategia culturale. L’assessorato alla cultura è solo una battuta di spirito.

Certo, quattro anni e pochi mesi sono peraltro un periodo breve per trarre bilanci, si possono al più individuare segnali, tracce, ma niente di più. Ma non si è vista e non si vede una politica culturale in atto, neanche grazie al traino dei Riti settennali, e questa non è una critica né un complimento; è una constatazione. Tutt’al più una sorta di minimalismo che si concentra sull’essenziale come la biblioteca e i musei, con un budget piuttosto modesto. La motivazione più grossa, o forse più grossolana, è che l’amministrazione ha da occuparsi di ben altre cose più urgenti, più concrete, più socialmente rilevanti (vedi i buchi di bilancio) per investire energie non solo economiche sulla cultura. Sottovalutando l’influenza della cultura e la sua ricaduta civile.

Da tempo in questa comunità assistiamo a una regressione costante di tutto ciò che fa cultura: e da molti anni. L’unica compensazione è la cultura a domicilio, tramite tecnologia, web e social. Pullulano solo piccoli eventi e kermesse culturali, dove però il tratto più diffuso è come suol dirsi la “contaminazione”: presentazioni di libri, eventi culturali effimeri che sono varianti secondarie delle attività promozionali pro-loco a sfondo turistico-commerciale; feste patronali laiche, o parallele alle sagre paesane. Comunque preferibili al nulla. In questo paese la cultura è una cenerentola marginale, anche nel servizio pubblico; salvo l’ossequio alla politica locale, gli orientamenti culturali sono sempre uguali a prima. E se ne fa poca, di cultura; si offrono pappette pseudo-culturali, sempre allineate ai dogmi correnti – femminismo, antifascismo, ecc… – o narrazioni sempre in linea col mainstream. Ma forse meglio i surrogati che niente.

L’evento culturale principale è settennale, collegato quindi ai Riti. Un episodio isolato. Ma che non viene nemmeno sviluppato. Per il resto, prudenza estrema, timorosa di promuovere iniziative. Non si vede alcun segno di “discontinuità” sul piano culturale; il passaggio è inavvertito, timido e opportunisticamente acquattato sugli assetti precedenti: enoturismo et similia. Ma il tema vero è che la cultura – in un paese con pochi beni culturali e paesaggistici – è in ritirata da anni. Non mi riferisco solo agli eventi, alle strutture, ma alla qualità, alla circolazione delle idee, alla vivacità intellettuale. E questo, ancora una volta, non dipende dai suoi abitanti; semmai è l’inverso, la cultura è scarsa perché scarsa è la politica, ovvero la cultura rispecchia un più vasto clima e un generale declino che investe il paese, la sua vitalità, la classe dirigente, la scarsità di opere e idee. Il declino culturale di Guardia, quindi, non dipende tanto dalla mancanza di interesse da parte della popolazione, ma piuttosto dalla scarsità di una leadership politica capace di nutrire la cultura. Nessuno se ne occupa, mancando di strumenti e di reale sensibilità. A maggior ragione la politica. Anzi, la politica, che dovrebbe essere il motore del cambiamento e del progresso, appare come una forza che rispecchia la decadenza del paese, piuttosto che un agente di rinnovamento. Si tira a campare, se ne tiene alla larga, si segue la via maestra del “sistema”; ma a questo punto meglio così.

Insomma, per concludere, nessun giovamento trae la cultura dal rapporto con la politica e le  amministrazioni. Meglio starne alla larga, meglio per tutti, ma soprattutto per chi ama davvero Guardia e la sua cultura e prende sul serio le idee. Meglio liberare la cultura dalla politica.