Quando si parla di una persona a Guardia, cade quasi inosservato il nome, spesso troppo comune magari perché riferito ai santi più venerati nel paese (e quindi valanghe di Filippo, Francesco, Giuseppe, Maria, ecc…), e dice poco o nulla il cognome, troppo generico, burocratico e magari facilmente scambiabile con altri omonimi. Ma la domanda identificativa d’obbligo è quasi sempre una: “A chi appartèn?”. Ovvero, a chi appartiene o, come diceva Dante, “Chi fuor li maggior tui”, ossia da quale famiglia provieni? È un modo pratico e antico, un criterio alternativo e collaudato in uso nella nostra società e più in generale nel sud Italia. Identificare le persone attraverso il contranome (soprannome). Il contranome è il fenomeno più emblematico e creativo tra le diverse forme del nominare e nient’altro è se non il riflesso delle caratteristiche fisiche, delle abitudini, del mestiere e della storia del soggetto e della famiglia del soggetto a cui fa riferimento. Nella vita di ogni giorno a Guardia il contranome è molto più significativo del cognome; spesso di taluni non si conosce il cognome ma solo il contranome; il contranome dice del suo lavoro, delle sue virtù e delle sue debolezze, e quasi sempre è ereditario, così da indicare e individuare pure il ceppo di derivazione. Ancora oggi il contranome è ciò che lo distingue, e se non è originario di Guardia ma è forestiero anche la sua provenienza (r’americàn), se insolita (m’zzett, fra’diavol, strascìn, ecc…), ne fa un ulteriore segno distintivo. Altro che curriculum. Nomen omen. Quel riscontro incrociato è implacabile e preciso; porta sempre a identificare la persona, inchiodandolo alla sua identità. Il contranome è un concentrato icastico di storia e fenomenologia della persona e del nucleo di appartenenza. Certo, il contranome a volte è impietoso, richiama i difetti fisici più spiccati, i vizi peggiori o le occupazioni più umili, rappresentate in modo diretto e brutale. Perché il nostro è ancora un mondo grezzo e greve, remoto da ogni gergo politicamente corretto; ma ha uno spiccato senso della realtà e della sua accettazione, senza perifrasi, ipocrisie lessicali e pietosi raggiri. E poi, è accettato anche dagli stessi interessati; difficilmente è usato all’insaputa dell’interessato. Neppure da quando è subentrato il perbenismo della nostra società agiata, il pudore borghese, è stato relegato il contranome al rango della maldicenza. Tale da essere un sottopancia, vistoso anche a chi lo porta, una specie di perfida didascalia alle spalle del malcapitato, come una lieve pugnalata.

Rispetto al cognome, il contranome ha un vantaggio: è più calzante, risponde realmente alla persona, lo identifica di più o fa più risaltare i suoi legami e le sue attitudini. Perché, allora, non puntare sul contranome obbligatorio nella vita quotidiana? Perché, ad esempio, non prendere in considerazione l’ipotesi del contranome insieme al nome e cognome per ogni candidato già alle prossime elezioni amministrative? La legge già lo consente. Già oggi, quando si va a votare per esprimere una preferenza è necessario scrivere il nome di un candidato o di una candidata sulla scheda elettorale, e può capitare di vedere nelle liste alcuni candidati indicati con la dicitura “Tizio detto Caio”. Non è più pratico, quindi, scegliere il prossimo primo cittadino di Guardia e i nostri rappresentanti direttamente dal contranome? È una via, un pensiero per certi aspetti originale, ma è un modo, una parabola, per capire in anticipo con chi avremo a che fare, per capire in anticipo le attitudini e le capacità dei nostri papabili candidati, anche perché nella vita e soprattutto nella storia di Guardia, nella scelta dei nostri rappresentanti non c’è mai solo un punto di vista, e forse nemmeno due.