L’ultima volta che ho incrociato lo sguardo di Amedeo Ceniccola è stato a un semaforo. Io aspettavo il verde e lui era nella sua auto grigia, sulla corsia esterna di via Roma, a Telese. Ci siamo guardati un istante. Giusto il tempo di riconoscerci reciprocamente (così, almeno, spero, perché forse l’ho riconosciuto solo io, non riconoscendo nulla di ciò che era stato lui). Era stato, lui, quanto di peggio e di meglio la politica potesse essere a Guardia. Era banale e geniale, allo stesso tempo. E se fosse utile scovare qualche stupidaggine ideologica, in lui – così incrostato di craxismo, dove tutto il cascame della propaganda del socialismo tricolore vi faceva alloggio – basterebbe svelarne la biografia. Si cambia. Ed è cambiato, Amedeo Ceniccola. Ha cominciato a non farsi riconoscere più parlando la lingua sofisticata di quelli che erano stati i suoi avversari del passato. Ed è cambiato, Amedeo Ceniccola. Per qualcuno è stato anche un bravo amministratore. Aveva un ruolo nella politica nostrana, era calato nella parte, e aveva un buon seguito di ammaliati, ovvero gente disposta a chiudere un occhio sui suoi capricci. Si cambia. Ed è cambiato, Amedeo Ceniccola. Ecco, forse ci ha messo un carico di buona fede. Lo voglio credere mentre se ne va via con la sua macchina grigia, immagino reduce dall’ennesimo baccanale nella sua nuova dimora di piazza Castello. E però devo confessarlo che mi è venuto difficile scrivere questo pezzo perché, insomma, tutto s’è consumato mentre l’ho riconosciuto dietro quel vetro. E il suo modo di buttarsi alle spalle una storia è stato certo il peggiore di tutti i modi. Perché l’avversione al manovratore non era omeopatia, era un veleno. Altrettanto quanto può esserlo oggi. Avrei voluto dirglielo se fosse durato ancora un minuto il semaforo rosso. È cambiato, certo, ma come i parvenu che ragliano al cielo la propria festosa mutazione, continua a cambiare fino a diventare uno scarto di quel manovratore che prima (forse) combatteva. E ha gettato nel cesso della storia di questa comunità la sua storia. È riuscito, lui, con le sue cravatte intonate e l’eterno completo grigio, a distruggere un ideale – un ambiente, una comunità di autentici – che aveva superato le persecuzioni, l’ostracismo e l’indifferenza. L’ultima domanda, quella che magari riesco a recapitargli con queste righe, è questa: “Amedeo, lo hai fatto un bilancio?”. Sicuramente sì, l’avrà fatto. E si sarà detto, sottovoce, di aver sbagliato. Avrà fatto mente locale e capito – una volta per tutte –, per quel che concerne la storia politica, di aver perso la stima di molti. E si sarà aggiustata, ben annodata al collo, la sua cravatta, bandiera di un’ambizione stritolata.